Un estratto dalla recensione di Marta Morazzoni a Il Sole non bagna Napoli di Antonella Cilento (BBE Edizioni), pubblicata sul settimanale ticinese Azione del 29 luglio 2024.
Lo sguardo di Antonella Cilento ne Il sole non bagna Napoli, (il titolo è una citazione d’affetto) è quello stregato da luci e ombre di questa terra tipico di chi la conosce con lucidità e passione e ne sa la misura. Anch’io sto imparando che Napoli chiede tempo e sapienza nell’affronto delle sue quattro dimensioni: altezza, larghezza, profondità. La quarta dimensione è l’affetto. Sembrerebbe la più pericolosa, se non fosse che in questo libro è accompagnata dalla capacità critica e quindi dalla voce della ragione che aiuta a filtrare le emozioni. «Napoli è un lento viaggio di profondità e di vette» scrive Antonella Cilento, preannunciando l’itinerario che ci propone, e non è una metafora: penso alla pancia del Vesuvio dentro cui ribolle il magma (nella foto si vede sullo sfondo) che agita anche i Campi Flegrei, penso alla vertigine di luce del Cristo alla colonna del Caravaggio e il rosso e l’oro della Maddalena del Masaccio a Capodimonte.
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Se vogliamo seguire il filo d’oro delle narrazioni e dei narratori, questa città non è seconda a nessuno: l’elenco dei suoi scrittori qui chiamati in causa è lungo: da Marotta a La Capria, a Fabrizia Remondino, alla Ortese, che forse è stata stilisticamente la più stregante nel gioco dell’invenzione. Tra tutti quelli che, sedotti dall’aria inquietante della città, dalla sua magnificenza e dall’altrettanto grande miseria, a Napoli hanno ambientato le loro storie è singolare il caso di E.T.A. Hoffmann che non la vide mai, ma ne fece lo scenario di una sua visione oscura e torbida. Mi viene però in mente che la fascinazione stregonesca di questo luogo è caduta anche su un milanese, perché qui Emilio De Marchi ambienta il suo giallo Il cappello del prete, un libro ingiustamente dimenticato e una perla di luce nera (un altro ossimoro) nella nebbia padana dello scrittore verista.
Infine una riflessione sullo stile dell’autrice modulato sulle sfumature della sua città, nelle pieghe del linguaggio ora coltissimo ora dialettale (e il dialetto racconta di un’altra e non meno profonda cultura), come nella conoscenza accurata e affettuosa della topografia e di tutto quello che angoli, vicoli, scalette e ipogei raccontano del passato. Occhi e orecchie aperti e ricettivi, per questo le voci che si rincorrono nelle strade o echeggiano nei palazzi tornano puntuali sulla pagina, dove l’elaborazione della scrittura si fonde con la forza dell’oralità: ne sentiamo «scritte» le cadenze riportate con naturalezza, e sono il segno di innata musicalità oltre che della capacità di conservazione del patrimonio linguistico che ogni dialetto porta con sé.
Che nel bene e nel male Antonella Cilento ami questa sua Napoli non c’è dubbio, non c’è dubbio che ce ne restituisca il calore e i colori, quella sintesi di luce e tenebra cui Manganelli avrebbe dovuto dare il tempo di manifestarsi.