una storia semplice, di grande pulizia formale e sostanziale che, senza eccessivi guizzi né effetti speciali, stuzzica la curiosità di chi legge esortandolo ad arrivare alla fine per sapere come andrà. (…)
Ed ecco l’elenco completo del vincitore e dei quattro finalisti in ordine alfabetico:
Luigi D’Amico L’Amleto Napoletano
Francesco Falco Denti
Felicita Lazzarini ‘A Bambulella
Stefano Mussari Di Vista
Nicola Tonelli Il verso giusto
Ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato al concorso inviandoci i loro materiali. L’appuntamento è per il 2012 per la seconda edizione di PICTURES OF NAPLES!
Il racconto vincitore:
L’Amleto napoletano
di Luigi D’Amico
Gesù, ma comme chiove! Gennarino Esposito si affacciò alla balconata del refettorio e si grattò la testa con un gesto che gli era abituale, quando rifletteva su qualcosa o stava escogitando una delle sue bravate giornaliere. Il piccolo, aveva solo otto anni, ma era stato soprannominato il filosofo dagli istitutori dell’orfanotrofio che portava il nome della Madonna Immacolata e da tutti coloro che lo conoscevano. A Gennarino era stato affibbiato quel soprannome per le sue continue e insistenti domande su ogni cosa, in una nenia ossessiva che stancava chi gli stava accanto. Perché il cielo è blu e non è di un altro colore? Perché siamo nati? Dove va il sole quando scompare la sera? E la Luna da dove viene e perché si presenta così diversa durante il mese? Perché il mare è salato? Dove vanno gli animali che muoiono e i cristiani? E dove sta il Paradiso in cielo? Prima di nascere, dove stanno i bambini? Queste erano solo alcune delle tante domande che si agitavano, come un turbine di vento, nella testa di Gennarino. Suor Carmela che lo aveva più di tutti accolto nel suo cuore, aveva la pazienza di sopportare quel ragazzino ribelle, ma sveglio, di un’intelligenza vivace che a volte lasciava senza parole. Gli occhi grandi, di un azzurro cobalto, il viso paffuto e roseo che si illuminava di una luce intensa quando sorrideva, e s’incupiva con la stessa intensità nei momenti di malinconia o di momentanea contrarietà. Era un bimbo alto per la sua età, snello, agile, ipercinetico. Senza difficoltà riusciva a sgusciare tra le gambe di suor Carmela o tra quelle ro professòr Arturo, l’istitutore che lo seguiva da quando era arrivato in quell’orfanotrofio, all’età di quattro anni. Quante ne aveva fatte passare al giovane Arturo e alle suore che si erano avvicendate in quegli anni nell’Istituto della Immacolata, in Via del Bosco di Capodimonte. Quante punizioni e rimproveri aveva ricevuto, senza piegarsi mai completamente alla disciplina e alle regole. Per minacciarlo, suor Carmela, con un fare non proprio convincente, gli prospettava il trasferimento nel carcere minorile di Nisida. Chiamo i carabinieri e ti faccio portare a Nisida, così ti chiudono in una cella buia e buttano la chiave. A pane e acqua debbono metterti per un mese, così impari a farmi disperare. Ma Gennarino non sembrava molto spaventato da quelle minacce. Voi nun me putetè chiudere, io non teng l’età, rispondeva sicuro di sé, mostrando di conoscere i suoi diritti, ma molto meno i suoi doveri. Riusciva sempre a neutralizzare le collere che suscitava in chi doveva occuparsi di lui. Il sorriso accattivante, lo sguardo sornione, le braccia sempre pronte a circondare la vita 2 larga di suor Carmela che alla fine si scioglieva come neve al sole e dopo qualche minuto, lo accoglieva sul suo petto vigoroso e abbondante, circondandolo con le sue braccia grassocce. Quella mattina Gennarino si era svegliato molto presto. Era molto eccitato, non aveva quasi chiuso occhio quella notte, agitandosi nel letto che occupava nella vasta camerata insieme ad altri cinque piccoli ospiti dell’Istituto. Nei pochi momenti nei quali si era appisolato aveva sognato, come gli capitava spesso, di viaggiare sulle nuvole, sulle ali di un angelo che aveva le sembianze del suo amico di giochi, Roberto. Roberto era un bimbo dai ricci castani e dagli occhi dolcissimi di un colore che sfumava nel verde acquamarina. Disponibile oltre ogni limite, sopportava le sfuriate e le prepotenze di Gennarino, con una pazienza infinita. Quella notte, il viaggio onirico era stato breve, ma intenso. Si erano mossi dalla vicina chiesa di S. Rocco e avevano sorvolato tutto il bosco di Capodimonte che stava a poca distanza dall’Istituto.
Un viaggio fantastico durante il quale Gennarino aveva potuto vedere dall’alto tutto ciò che non aveva visto nelle frettolose visite che aveva fatto, insieme a suor Carmela e a un piccolo gruppo di altri ragazzini. E anche nel sogno aveva tempestato di domande il suo angelo trasportatore. Voleva sapere dove si trovava il museo, di cui aveva sentito parlare, dove il casino della regina, dove fossero le scuderie con i cavalli che lui da lassù non vedeva. E poi, mentre sorvolavano la Porta di Mezzo, quando già si delineavano i cinque grandi viali che si irradiavano come interminabili lati di un magico pentagono, si era svegliato. Aveva però fatto in tempo a percepire il fruscio delle foglie degli olmi che ondeggiavano alla leggera brezza del mattino e il profumo della resina dei tigli, le cui foglie trasudavano lacrime profumate. Gesù, ma comme chiove! ripeté appena aperti gli occhi, guardando fuori. Come era diverso il tempo dei suoi sogni dalla realtà di quella giornata uggiosa, che si prospettava buia e fredda. Propete oggi dovevà piovèr, disse sottovoce, oggi che dobbiamo uscire a fare una passeggiata con suor Carmela. In realtà proprio quel lunedì era stata programmata un’uscita per un gruppo di bambini. Si trattava di un percorso breve, fino alla chiesa di S. Vincenzo Ferreri alla Sanità, per prendere accordi con il parroco, don Saverio riguardo al corso di catechismo che il gruppo di bambini doveva frequentare, in preparazione alla loro prima comunione. Don Saverio era stato categorico con suor Carmela. Fatemi venire i uagliune, lunedì, alle nove, se no, non li posso più iscrivere. E suor Carmela, aveva acconsentito ad accompagnare quei quattro diavoli, in modo da non contrastare il vecchio e burbero parroco della Sanità, che solo per l’insistenza della monaca aveva accettato di prendere 3 in carico, a corso già iniziato, quel gruppo di figli della madonna. Anche se l’uscita non era delle più invitanti, visto che si trattava di andare in chiesa, Gennarino era comunque eccitato all’idea di dover lasciare per qualche ora l’Istituto e si rammaricava di quella pioggia che sembrava non voler più smettere. Fu quindi molto felice quando suor Carmela venne a chiamarlo e lo invitò a prepararsi. Gli altri compagni erano già pronti e Gennarino si aggregò al gruppo, con il suo solito rumoroso e colorito campionario di versi, smorfie e commenti. Suor Carmelina a’ truppa è prontà, putimme partir ppe à spediziòn, disse rivolgendosi con un sorriso illuminante alla monaca, mentre si aggrappava alla sua mano e con l’altra si dava un’ aggiustatina al colletto della maglietta che nella fretta gli si era rivoltato sul collo. Aveva indossato la mantella impermeabile con il cappuccio che gli copriva la testa. Suor Carmela fece una rapida ispezione a tutti e quando gli sembrò che la pioggia fosse diventata meno intensa, decise di uscire. Il gruppo si mise in cammino per raggiungere via S. Teresa degli scalzi, per scendere al rione Sanità con l’ascensore che portava proprio sotto il ponte, a due passi dalla Basilica, conosciuta come la chiesa di S. Vincenzo Ferreri, detto o' Munacone, la cui grande cupola maiolicata era ben visibile, attraverso le alte inferriate che proteggevano il ponte. Si erano messi in cammino solo da qualche minuto, quando la pioggia cessò. Buona parte del cielo si liberò delle nuvole, che spazzate dal vento, lasciarono al loro posto una striscia di azzurro, brillante come il manto della Madonna del rosario che si trovava in una delle cappelle laterali della basilica, commentò suor Carmela, facendosi un rapido segno della croce, per ringraziamento. Arrivati all’ingresso della chiesa, i ragazzi rimasero affascinati della facciata con le sue decorazioni in stucco, ma principalmente dal campanile e dalla bella cupola rivestita in maioliche gialle e verdi e dall’alto campanile che affiancava l’ingresso della basilica, come una torre di guardia con il suo orologio. I numeri romani che indicavano le ore, erano anch’essi in maiolica gialla, con le lancette ferme sul numero dieci. Il parroco don Saverio, un vecchio dal carattere acido e dalla figura segaligna, con una vistosa voglia rossa sul collo, li accolse accanto ad una delle acquasantiere a muro che si trovavano ai due lati dell’ingresso, decorate con marmi di colori diversi e con impresso lo stemma dell’ordine dei domenicani. Suor Carmela fece le ultime raccomandazioni a denti stretti ai bambini e in particolare si raccomandò a Gennarino di comportarsi bene, di essere educato e di non farle fare brutte figure, altrimenti l’avrebbe pagata cara, al ritorno in istituto. Gennarino assunse l’espressione angelica che sapeva fare, quando voleva assicurarsi la fiducia di qualcuno, abbassò lo sguardo per terra, congiunse l’indice e il 4 medio della mano destra e con essi fece il gesto di sigillarsi le labbra, mentre alzava la mano sinistra, per suggellare un giuramento che, assicurava, avrebbe rispettato. Non ti preoccupare suor Carmela, disse in un sussurro, mentre si avvicinavano in fila indiana verso la figura allampanata del parroco che li attendeva, fermo come uno delle statue della sua chiesa. Lo sguardo severo dietro le lenti sottili dalle stanghette argentate e gli occhi da furetto che sembravano voler penetrare nell’anima, fissava con intensità, ora il gruppo dei ragazzini, ora suor Carmela, stranamente intimorita da quella presenza. Non vi faremo fare brutte figure, saretè fierà e’ nuje, aggiunse Gennarino in un sussurro, alzandosi sulle punte e accostando la bocca verso l’orecchio della monaca, mentre un sorriso sornione si stampava su quel viso vispo e paffuto, dal colorito roseo. Suor Carmela presentò al parroco quei quattro bambini che a turno, quando venivano chiamati per nome, come cani ammaestrati, correvano a baciare la mano protesa di don Saverio, accennando anche ad un inchino, che non era stato concordato e di cui la monaca, in cuor suo, si rallegrò. Don Saverio fece a tutti un piccolo discorso, poi fissò lo sguardo su Gennarino. C’era qualcosa che lo aveva colpito in quel ragazzino dagli occhi vispi e con quella luce particolare che sembrava abbagliare chi lo osservava. Il bambino notò questo interessamento, non si scompose, anzi, assunse l’aria più innocente possibile, giunse le mani, quasi stesse pregando e spostò lo sguardo verso l’altare maggiore, dove una doppia scalinata di marmi policromi si snodava verso il tabernacolo. Il parroco si rivolse prima a tutti, in dialetto, per essere sicuro di farsi capire e per attirare maggiormente la loro attenzione. Uaglione, me raccomando, pigliate chistu impègn assai seriamente. Poi indirizzò la sua attenzione a Gennarino. Non so perché ma io penso che tu aia’ essere o’ capo. Vir’ e filare diritt e e’ mettere in fila e’ tuoi compàgn. A quelle parole gli altri tre ragazzini cominciarono a sghignazzare, prima trattenendosi con la mano sulla bocca, poi con una risata incontenibile, cercando di nascondersi dietro suor Carmela che intanto era arrossita violentemente per il comportamento di quei lazzari. Ma la vera preoccupazione della monaca era per la reazione di Gennarino che, infatti, non si fece attendere. Ma qualè capò e capò, o capò e….Il bambino non fece a tempo a completare la frase, perché suor Carmela, con un gesto repentino, gli chiuse la bocca con la mano sinistra, mentre la destra si alzò in alto e stava per ricadere sulla faccia di Gennarino, con la stessa violenza e forza, con la quale in gioventù spronava l’asino nel podere del padre, quando s’incapricciava e non voleva più muoversi e trasportare la legna. Si fermò a mezz’aria solo perché in quel 5 momento l’organo cominciò a suonare e la chiesa fu invasa da un suono dolce e intenso, una melodia che rapiva e invitava al silenzio e alla meditazione. Dopo quel primo incontro, i ragazzi cominciarono a seguire le lezioni di catechismo settimanale, ogni lunedì. Così Gennarino e i suoi amici frequentarono per alcuni mesi la chiesa della Sanità. Le preoccupazioni di suor Carmela e del parroco si dimostrarono infondate, in quanto i ragazzini si rilevarono attenti e principalmente educati, durante gli incontri che ebbero con il parroco o un suo sostituto. Quello che si dimostrò più indisciplinato fu Gennarino, ma non per scostumatezza, ma per quel suo continuo chiedere spiegazioni di tutto e su tutto. Quel ragazzino metteva a dura prova la pazienza del vecchio don Saverio, il quale spesso era costretto a interrompere la sua lezione per zittirlo. Tu, int’a vocca tiene nu’ grammofòn stonàt ca aia spegnèr, gli urlava quando proprio non ne poteva più. Non mi puoi rompere i timpani con le tue continue domande. La fede, caro Gennarino, non chiede i perché, non fa domande, le cose si accettano e basta, si ubbidisce hai capito? Il ragazzino annuiva con la testa, per un po’ stava zitto, ma poi ricominciava con la sua litania dei perché, con le sue domande metafisiche, come chiamava quelle richieste di spiegazioni, o’ professòr Arturo. Tu bbuo’ fa’ troppò o’ filosòf, gli ripeteva continuamente l’istitutore e la stessa cosa gli diceva il parroco, il quale aggiungeva che per passare dalla porta del Paradiso, non c’era bisogno della filosofia ma della fede. Ma proprio del Paradiso Gennarino era curioso di sapere tutto. Monsignore, ma aro’ sta chiustu Paraviso, si può sapere? In cielo figlio mio, in cielo, rispondeva don Saverio, quando era di buon umore e qualche briciola di pazienza gli era ancora rimasta. Ma in cielo dove esattamente? Il parroco allora cominciava a spazientirsi, si toglieva gli occhiali, se li puliva, sospirava, volgeva gli occhi al cielo, come a chiedere aiuto al Padreterno. Poi si voltava verso l’altare, verso il tabernacolo, si faceva il segno della croce, diceva una giaculatoria indecifrabile, per prendere tempo, per non sbottare, per cercare di frenare la voglia forte che sentiva salirgli in petto di dare un ceffone a quel birbante, che non la finiva con le domande, che non si accontentava, come gli altri delle spiegazioni che lui propinava, ma continuava a tormentarlo.
E si, mò te faccio a mappa stradàl ppe arrivàr o’ Paraviso, ca’ dici? Il Paradiso si vede quando si è morti, non prima, solo l’anima può vedere il Paradiso, può stare a contatto con Dio, nella sua casa in cielo. Devi aspettare di morire, Gennarì, per poter andare in Paradiso, fra cent’anni ti auguro, ma poi non è nemmeno sicuro che ci vai. Solo se sarai buono, se non farai cattiverie e peccati mortali, se la smetterai di tormentare il prossimo con le tue continue domande, solo allora e forse potrai entrare in Paradiso, se S. Pietro ti aprirà le porte. Gennarino a questi ragionamenti increspava la fronte, abbassava la testa riccioluta, le pupille perdevano per un attimo la luce che le faceva brillare, come due fari nella notte, s’intristiva. Ma poi subito si riprendeva e tornava alla carica, incalzava il povero parroco che cercava di trattenersi dal dare in escandescenze. Tutto per il cuore sacratissimo di Gesù, sussurrava, mentre si disponeva a rispondere all’ennesimo attacco del piccolo filosofo. Scusàt monsignore, ma mo’ cà c’entra S Pietro, chi comànd in Paraviso, Dio o S. Pietro? Innanzitutto, non chiamarmi monsignore, che a me pare che mi vuoi proprio sfottere, basta solo don Saverio, poi per quanto riguarda la questione che mi chiedi è di difficile soluzione, è un dogma teologico che non puoi capire, riguarda la gerarchia dei santi, degli angeli, degli arcangeli e tante altre questioni. Ora impara il catechismo, poi quando sarai più grande, ne parleremo. Il parroco cercava in questo modo di chiudere la questione, e spesso ci riusciva. Poi un lunedì, un giorno in cui si sentiva più calmo e predisposto a sopportare gli attacchi di Gennarino, venne in mente a lui una domanda da fare a quello scocciatore. Ma scusa Gennarì, perché mi fai continuamente tutte queste domande sul Paradiso, per caso vuoi diventare santo? Il bambino sollevò lo sguardo dal libro del catechismo che aveva tra le mani e fissò diritto negli occhi don Saverio. C’era la solita luce in quello sguardo, sorrideva, era fiero di se stesso per aver sollecitato finalmente la curiosità del vecchio sacerdote. Monsignore… o scusate, don Saverio, io cerco di sapere dov’è il Paradiso perché là mi hanno detto stanno papà e mammà, i miei genitori, che sono morti prima che io nascessi e che non ho conosciuto. Suor Carmela mi ha detto tante volte che tutti e due erano andati in cielo. Io allora le ho chiesto, ma dove in cielo? Sulle nuvole, sulle montagne alte, sul Vesuvio, sulla Luna, su qualche stella. No, no, mi ha risposto, in cielo significa in Paradiso. Allora io ho capito che il Paradiso sta in cielo, ma non quello terrestre, quello di Adamo ed Eva, non è vero? Che poi si chiamava Eden, come voi ci avete detto, dal quale furono scacciati a calci in c… Don Saverio lanciò un urlo che bloccò in gola la frase blasfema del piccolo. Scusate, mormorò contrito Gennarino, non volevo dire una parolaccia, insomma furono buttati fuori perché avevano mangiato i frutti dell’albero della conoscenza, è così? Il parroco fece un lieve cenno di assenso. Ma poi, scusate, che albero era quello della conoscenza? Quali frutti dava? un frutto metaforico, te l’ho già detto, bofonchiò il prete al limite della sopportazione, ti ricordi? Vabbè, disse con aria spazientita Gennarino, passiamo oltre, don Saverio, certe cose per me sono troppo difficili. Dunque, stavo dicendo,il paradiso terrestre, se è terrestre deve stare sulla Terra, se no che paradiso terrestre è? Sarebbe celeste, non vi pare? Ma a proposito, e qui riprendeva il tono serio e ispirato, cominciava a soffiare aria dalla bocca storcendo il labbro superiore, in modo da far smuovere il ciuffo ribelle di riccioli che gli ricadeva sulla fronte. Ma il Paradiso terrestre, su quale terra stava? In Africa? In India? In Cina? Mica stava in Italia, magari a Napoli, verso il Vesuvio, o forse sopra i Camaldoli? Si forse stava proprio sopra i Camaldoli, dove adesso sta nu’ monastero, in alto sulla montagna che guarda la solfatara di Pozzuoli, dove invece stava l’inferno. vero che là a Pozzuoli stava l’inferno? Voi lo conoscete il monastero dei Camaldoli? Quel giorno don Saverio si spazientì del tutto. Prese Gennarino per il braccio e lo condusse verso il presbiterio, all’ingresso delle catacombe di S. Gaudioso. Adesso se stai zitto, almeno per dieci minuti, ti porto a vedere qualcosa che non ho fatto vedere a nessuno dei tuoi compagni. Ti porto nel mondo dei morti, nelle catacombe di S. Gaudioso che stanno sotto questa chiesa, dove ci sono i corpi di quelli che forse il Paradiso lo hanno visto e ci stanno già da qualche secolo. Così può darsi che ti acquieti e mi lasci un po’ in pace. Vuoi venire o hai paura rè cape e’ morte? Io non tengo paura di niente, rispose pronto Gennarino e si accostò verso don Saverio, tendendogli timidamente la mano. Il vecchio sacerdote, dopo qualche esitazione, la strinse forte. Sentì un lieve tremore che si trasmise alla sua mano sinistra e attraverso quella, al braccio e poi arrivò fino al cuore. La prima sensazione che colpì Gennarino fu un senso di oppressione che lo colse quando per mano a don Saverio iniziò il suo viaggio in quei cunicoli bui, rischiarati solo da fioche e piccole lampade votive. E poi il freddo che gli penetrava nelle ossa, e gli procurava un brivido che attraversava tutto il suo piccolo corpo. Ma si fece coraggio, s’impose di non mostrare paura. Strinse con più forza la mano di don Saverio solo quando si trovò davanti, incassato nell’umida roccia, la sagoma completa di uno scheletro, illuminata dalla luce sepolcrale di una fioca lampadina che sembrava ingigantire quelle forme, dare quasi movimento a quelle ossa. Ma non parlò, non chiese nulla a don Saverio. Sembrava quasi che la sua energia si fosse esaurita, la sua inesauribile curiosità spenta all’improvviso, come la luce del sole, in quei cunicoli scavati nella nuda roccia, in quel tortuoso labirinto sotterraneo, umido e nero come la notte. Fu il vecchio parroco a raccontargli, in grandi linee, la storia di quel cimitero sotterraneo, la sua origine a partire dalla morte del vescovo Gaudioso che proveniente dall’Africa, venne a fondare un monastero proprio in quella zona, e lì finì la sua vita terrena, intorno al 450. In quella terra benedetta fu sepolto e lì, dove adesso sorgeva la 8 basilica della Sanità, fuori le mura della città, sorse un cimitero. Gennarino ascoltò quel giorno con grande attenzione il racconto del parroco. Beveva ogni sua parola, senza fiatare, senza chiedere, tanto che don Saverio gli chiese se per caso avesse perso la lingua per la paura. Nun teng paura, sto sul pensànd, don Saverio, rispose serio e continuò a guardarsi intorno, cercando di abituare gli occhi a quell’ambiente. In ogni cavità scavata nella nuda roccia c’erano teschi di varia forma e grandezza. Alcuni erano inseriti in teche di vetro, protette da un sottile strato trasparente, altri erano scoperti, lucidi, puliti, raschiati, come se avessero subito una solerte e continua pulitura. E in effetti, gli confermò don Saverio, molti di quelle fredde ossa erano state adottate da donne che ne tenevano cura, come di una creatura viva, di un famigliare bisognoso di affetto. Molti di quei teschi, aggiustati con le due tibie intrecciate a formare una composizione che Gennarino aveva visto riprodotta su alcuni flaconi di medicinali, nell’infermeria dell’istituto, avevano vicino degli oggetti di metallo lucente. Sono degli ex voto, disse don Saverio, notando lo sguardo interrogativo di Gennarino. Da tempo immemorabile, i fedeli vengono a trovare questi morti abbandonati, ne scelgono uno e lo curano come se fosse un loro parente, un padre, una madre, un nonno, un fratello. Gli accendono lumini, lampade votive, gli portano fiori, e chiedono grazie. Poi, se ottengono ciò che hanno chiesto, ritornano e portano questi pegni d’amore. Un cuore, una gamba, l’intera figura, una testa, un braccio, a seconda dell’organo che era malato e che, secondo loro, è guarito, per intercessione della loro anima del purgatorio. Gennarino ascoltò in silenzio, poi il suo sguardo si illuminò d’improvviso, ebbe una reazione inaspettata, lasciò la mano di don Saverio e se la passò in testa, scompigliandosi i ricci e grattandosi la fronte, come faceva quando stava per fare una delle sue considerazioni filosofiche. Don Saverio, disse con voce ferma, cercando di intercettare, lo sguardo del prete, nella poca luce di uno dei cunicoli più stretti, davanti ad una teca che conteneva un cranio più grande e lucido di tutti, con i fori delle orbite che sembravano due gallerie. Don Saverio, ma allora quelle persone adottano na’ capa e’ mortò, come si adottano i bambini? Si, più o meno, rispose il prete, meravigliandosi della perspicacia di quel ragazzino. Allora sapete che c’è di nuovo, monsignor…o scusate, don Saverio,che pur’io voglio adottate na’ capa e’ mortò, vista che fino a mò nessuno ha voluto adottare a me. Il prete sentì un brivido lungo la schiena. Si commosse, ma non lo dette a vedere. Don Saverio, non esternava facilmente i suoi sentimenti, anche se sotto quell’apparente scorza di severità e scontrosità, batteva un cuore sensibile e generoso. E bravo Gennarino! Che bella pensata che hai avuto! Certo che puoi adottare la tua capa di morto, la tua anima del purgatorio, a cui puoi dedicare le tue attenzioni, le tue preghiere, chiedere di intercedere per te in Paradiso. Gli posso chiedere tutto? chiese il ragazzino, e un sorriso furbesco gli si era stampato sul viso. Tutto ciò che è lecito chiedere, rispose con voce ferma il prete. Va bene, allora ci sto. Ho deciso, faccio l’adozione. Don Saverio lo attrasse a sé, con un moto che non gli era congeniale, quasi lo abbracciò e Gennarino, che non chiedeva altro, si allacciò alla vita del prete, afferrò la sua tonaca, la stropicciò, tanto che don Saverio dovette staccarlo a forza. Ne, guagliòn, me bbuo’ stracciàr l’abito talare? Guarda che te lo faccio pagare. Sorrise benevolmente mentre gli dava uno scappellotto. Ora devi solo scegliere il tuo teschio, la tua anima, disse don Saverio. Ho già scelto, don Saverio, ho già trovato chi è l’anima che debbo adottare. E’ quel cranio che sta là! E indicò quel teschio dalla calotta cranica lucidissima e armoniosa, con le suture perfettamente integre, le orbite profonde, la fronte spaziosa, con le arcate sopracciliari appena pronunciate, mandibola e mascelle con denti conservati e bianchissimi. Mi piace questo! disse quasi facendo un salto e si trattasse di un giocattolo da scegliere. Si questo, con le altre due ossa incrociate a formare una croce. Sono due tibie, precisò don Saverio, due ossa della gamba, e si toccò la sua per far capire a Gennarino dove si trovavano. Adesso possiamo andare, disse don Saverio, adesso puoi venire ogni volta che vuoi a trovare il tuo amico. Ma Gennarino non si muoveva. Era pensoso, aveva le labbra serrate come a voler trattenere una domanda che aveva paura o vergogna di fare. E adesso che c’è, disse don Saverio. Mo’ ca’ te manca? Scusate don Saverio, ma quando si adotta qualcuno, fosse pure nu’ cane, non bisogna dargli un nome? Il prete non si scompose, ormai era abituato al fatto che quel bambino era una fonte inesauribile di sorprese. Eppure hai ragione, scegli tu il nome allora. Gennarino ebbe un’esitazione, si bloccò, proprio mentre stava per parlare. Ci pensò su un po’ e poi disse. Scusate, ma come faccio a scegliere un nome se non so se è maschio o femmina? Don Saverio, a quel punto, si pentì amaramente di aver fatto scendere il piccolo filosofo nelle catacombe, ma comunque azzardò una soluzione. Per convenzione stabilita tutte e’ capa e’ mortò sono maschi, quindi scegli un nome e non scocciare. Gennarino ci pensò su. Aggrottò la fronte, si grattò la testa, distorse il labbro emettendo un soffio d’aria per far smuovere il ricciolo che gli ricadeva sempre sulla fronte, e poi finalmente sentenziò. Lo chiamerò Arturo! E perché proprio Arturo? chiese il prete, entrato ormai nel vortice di quella rappresentazione che stava tra il sacro e il profano. Arturo è il mio migliore amico, ma principalmente perché Arturo è il nome di una stella, una delle più brillanti del firmamento, che si trova lontano, lontano, eppure brilla come se avesse acceso dentro la pancia milioni di fari. E tu come sai queste cose, chiese don Saverio sinceramente meravigliato di quella uscita astronomica di Gennarino. Me l’ha detto il mio amico, o’professòr Arturo appunto, l’istitutore. Va bene, disse don Saverio, chiamalo pure Arturo e mi raccomando trattalo bene. Non vi preoccupate don Saverio, ormai Arturo sta in mano a mè. Nei mesi seguenti e fino alla fine del corso di catechismo, ogni volta che Gennarino andava nella chiesa della Sanità, non mancava di far visita ad Arturo. Avvertiva don Saverio che scendeva nelle catacombe, che ormai per lui non avevano segreti e si fermava davanti alla teca di Arturo. Ogni volta gli portava un fiore o gli accendeva un lumino e si tratteneva a parlare con quel teschio, come se fosse una persona. In quei mesi, gli raccontò tutta la sua vita, gli confidò le sue pene, le sue angosce, e lo tempestò di domande come faceva con i vivi. I suoi perché non stancavano Arturo che anzi ascoltava pazientemente le domande di Gennarino, senza scomporsi, senza infastidirsi, o spazientirsi. Venne il giorno della prima comunione. Fu un giorno di festa, di suoni, di allegria. Dopo aver ricevuto per la prima volta l’ostia sacra, Gennarino si avvicinò a don Saverio e gli disse qualcosa all’orecchio, approfittando di un momento in cui non c’era nessuno più nei paraggi. Suor Carmela vide la scena e si rallegrò in cuor suo di quella intimità, della complicità sorta tra il vecchio sacerdote e Gennarino. Dopo un po’ il ragazzino scomparve dalla sagrestia, e dalla chiesa. I suoi compagni erano tutti radunati intorno a suor Carmela, ma di Gennarino si erano perdute le tracce. Don Saverio si ricordò della richiesta di Gennarino e si precipitò insieme all’istitutore nelle catacombe. I due attraversarono velocemente il percorso sotterraneo che portava alla teca del teschio adottato dal ragazzino e appena arrivati lanciarono, quasi contemporaneamente, un urlo disperato. Disteso sull’umido selciato della cripta c’era il bambino, i polsi sanguinanti, pezzi di vetro della teca sparsi intorno. Gli occhi erano aperti, aveva cercato di sollevarsi ma era ricaduto a faccia a terra, indebolito dalla perdita di sangue uscito dalla lesione alle vene dei polsi che si era procurato rompendo la teca di vetro che conteneva il teschio. Gennarì, urlò don Saverio, che hai combinato? Mentre il giovane istitutore si slanciava verso di lui, lo sollevava da terra, lo prendeva in braccio e con il fazzoletto stringeva i piccoli polsi per fermare l’emorragia. Che hai combinato figlio mio? ripeteva tra lo sconforto don Saverio. Il pallore dl volto del bambino era impressionante. Don Saverio, mi gira forte la testa, disse in un sussurro. Ma come hai fatto a farti così male? E perché? Don Saverio, io volevo solo abbracciare il mio amico, lo avevo adottato, vi ricordate? E allora che adozione era se non potevo abbracciarlo, dopo che gli avevo parlato per tanto tempo, lo avevo scocciato con tutte le mie domande, e lui mi aveva ascoltato con grande pazienza. Si bloccò per un colpo di tosse, voltò lo sguardo verso il giovane che intanto lo aveva sollevato in braccio e si avviava verso l’uscita. E allora ho rotto il vetro che lo separava da me e l’ho abbracciato. Com’era freddo, don Saverio, proprio come un morto! Figlio mio, figlio mio, continuava a ripetere Don Saverio, mentre ormai erano arrivati all’ingresso del presbiterio, dove suor Carmela, vedendo la scena, lanciò un urlo che fece rintronare tutto l’altare maggiore. Per poco non andavi a fare compagnia al tuo amico Arturo, incosciente! E mi mettevi pure nei guai. E io che mi ero fidato di te. Adesso don Saverio si era ripreso, aveva capito che poi la situazione non era così grave e poteva anche lasciarsi andare a qualche rimprovero. Ma che ti è saltato in testa, tu sei la mia disperazione, si lamentò suor Carmela mentre lo abbracciava, quasi facendolo cadere dalla braccia del giovane istitutore. All’ospedale, subito all’ospedale, senza perdere tempo! gridò suor Carmela, e intanto aveva fermato una macchina di passaggio mettendosi al centro della strada, con il rischio di essere investita. Io volevo solo abbracciare il mio adottato, il mio amico, suor Carmela. La suora che non conosceva i retroscena della faccenda, non capì e pensò che Gennarino stesse vaneggiando per la perdita di sangue. E poi… poi gli ho chiesto se per caso aveva visto, lui che sta in paradiso, perché Arturo, come la stella sta in cielo e quindi sta in paradiso, se per caso aveva visto mammà e papà miei. E lui mi ha risposto, lo sapete, mi ha risposto! A’capa e’ morto si è mossa, si è abboccat’ in avanti. E allora io l’ho abbracciato e mi sono sentito più leggero. Il sangue mi usciva, ed ero più leggero e così sarei potuto andare in cielo, e magari in paradiso e avrei visto i miei genitori. Ma poi siete venuti voi e il sogno è svanito. Zitto, sta zitto figlio mio, disse suor Carmela e lo cullava mentre lo teneva in braccio, come avrebbe fatto sua madre, mentre la macchina con il clacson strombazzante attraversava di corsa il rione Sanità, si precipitava verso l’Ospedale S. Gennaro.