E si, mò te faccio a mappa stradàl ppe arrivàr o’ Paraviso, ca’ dici? Il Paradiso si vede quando si è morti, non prima, solo l’anima può vedere il Paradiso, può stare a contatto con Dio, nella sua casa in cielo. Devi aspettare di morire, Gennarì, per poter andare in Paradiso, fra cent’anni ti auguro, ma poi non è nemmeno sicuro che ci vai. Solo se sarai buono, se non farai cattiverie e peccati mortali, se la smetterai di tormentare il prossimo con le tue continue domande, solo allora e forse potrai entrare in Paradiso, se S. Pietro ti aprirà le porte. Gennarino a questi ragionamenti increspava la fronte, abbassava la testa riccioluta, le pupille perdevano per un attimo la luce che le faceva brillare, come due fari nella notte, s’intristiva. Ma poi subito si riprendeva e tornava alla carica, incalzava il povero parroco che cercava di trattenersi dal dare in escandescenze. Tutto per il cuore sacratissimo di Gesù, sussurrava, mentre si disponeva a rispondere all’ennesimo attacco del piccolo filosofo. Scusàt monsignore, ma mo’ cà c’entra S Pietro, chi comànd in Paraviso, Dio o S. Pietro? Innanzitutto, non chiamarmi monsignore, che a me pare che mi vuoi proprio sfottere, basta solo don Saverio, poi per quanto riguarda la questione che mi chiedi è di difficile soluzione, è un dogma teologico che non puoi capire, riguarda la gerarchia dei santi, degli angeli, degli arcangeli e tante altre questioni. Ora impara il catechismo, poi quando sarai più grande, ne parleremo. Il parroco cercava in questo modo di chiudere la questione, e spesso ci riusciva. Poi un lunedì, un giorno in cui si sentiva più calmo e predisposto a sopportare gli attacchi di Gennarino, venne in mente a lui una domanda da fare a quello scocciatore. Ma scusa Gennarì, perché mi fai continuamente tutte queste domande sul Paradiso, per caso vuoi diventare santo? Il bambino sollevò lo sguardo dal libro del catechismo che aveva tra le mani e fissò diritto negli occhi don Saverio. C’era la solita luce in quello sguardo, sorrideva, era fiero di se stesso per aver sollecitato finalmente la curiosità del vecchio sacerdote. Monsignore… o scusate, don Saverio, io cerco di sapere dov’è il Paradiso perché là mi hanno detto stanno papà e mammà, i miei genitori, che sono morti prima che io nascessi e che non ho conosciuto. Suor Carmela mi ha detto tante volte che tutti e due erano andati in cielo. Io allora le ho chiesto, ma dove in cielo? Sulle nuvole, sulle montagne alte, sul Vesuvio, sulla Luna, su qualche stella. No, no, mi ha risposto, in cielo significa in Paradiso. Allora io ho capito che il Paradiso sta in cielo, ma non quello terrestre, quello di Adamo ed Eva, non è vero? Che poi si chiamava Eden, come voi ci avete detto, dal quale furono scacciati a calci in c… Don Saverio lanciò un urlo che bloccò in gola la frase blasfema del piccolo. Scusate, mormorò contrito Gennarino, non volevo dire una parolaccia, insomma furono buttati fuori perché avevano mangiato i frutti dell’albero della conoscenza, è così? Il parroco fece un lieve cenno di assenso. Ma poi, scusate, che albero era quello della conoscenza? Quali frutti dava? un frutto metaforico, te l’ho già detto, bofonchiò il prete al limite della sopportazione, ti ricordi? Vabbè, disse con aria spazientita Gennarino, passiamo oltre, don Saverio, certe cose per me sono troppo difficili. Dunque, stavo dicendo,il paradiso terrestre, se è terrestre deve stare sulla Terra, se no che paradiso terrestre è? Sarebbe celeste, non vi pare? Ma a proposito, e qui riprendeva il tono serio e ispirato, cominciava a soffiare aria dalla bocca storcendo il labbro superiore, in modo da far smuovere il ciuffo ribelle di riccioli che gli ricadeva sulla fronte. Ma il Paradiso terrestre, su quale terra stava? In Africa? In India? In Cina? Mica stava in Italia, magari a Napoli, verso il Vesuvio, o forse sopra i Camaldoli? Si forse stava proprio sopra i Camaldoli, dove adesso sta nu’ monastero, in alto sulla montagna che guarda la solfatara di Pozzuoli, dove invece stava l’inferno. vero che là a Pozzuoli stava l’inferno? Voi lo conoscete il monastero dei Camaldoli? Quel giorno don Saverio si spazientì del tutto. Prese Gennarino per il braccio e lo condusse verso il presbiterio, all’ingresso delle catacombe di S. Gaudioso. Adesso se stai zitto, almeno per dieci minuti, ti porto a vedere qualcosa che non ho fatto vedere a nessuno dei tuoi compagni. Ti porto nel mondo dei morti, nelle catacombe di S. Gaudioso che stanno sotto questa chiesa, dove ci sono i corpi di quelli che forse il Paradiso lo hanno visto e ci stanno già da qualche secolo. Così può darsi che ti acquieti e mi lasci un po’ in pace. Vuoi venire o hai paura rè cape e’ morte? Io non tengo paura di niente, rispose pronto Gennarino e si accostò verso don Saverio, tendendogli timidamente la mano. Il vecchio sacerdote, dopo qualche esitazione, la strinse forte. Sentì un lieve tremore che si trasmise alla sua mano sinistra e attraverso quella, al braccio e poi arrivò fino al cuore. La prima sensazione che colpì Gennarino fu un senso di oppressione che lo colse quando per mano a don Saverio iniziò il suo viaggio in quei cunicoli bui, rischiarati solo da fioche e piccole lampade votive. E poi il freddo che gli penetrava nelle ossa, e gli procurava un brivido che attraversava tutto il suo piccolo corpo. Ma si fece coraggio, s’impose di non mostrare paura. Strinse con più forza la mano di don Saverio solo quando si trovò davanti, incassato nell’umida roccia, la sagoma completa di uno scheletro, illuminata dalla luce sepolcrale di una fioca lampadina che sembrava ingigantire quelle forme, dare quasi movimento a quelle ossa. Ma non parlò, non chiese nulla a don Saverio. Sembrava quasi che la sua energia si fosse esaurita, la sua inesauribile curiosità spenta all’improvviso, come la luce del sole, in quei cunicoli scavati nella nuda roccia, in quel tortuoso labirinto sotterraneo, umido e nero come la notte. Fu il vecchio parroco a raccontargli, in grandi linee, la storia di quel cimitero sotterraneo, la sua origine a partire dalla morte del vescovo Gaudioso che proveniente dall’Africa, venne a fondare un monastero proprio in quella zona, e lì finì la sua vita terrena, intorno al 450. In quella terra benedetta fu sepolto e lì, dove adesso sorgeva la 8 basilica della Sanità, fuori le mura della città, sorse un cimitero. Gennarino ascoltò quel giorno con grande attenzione il racconto del parroco. Beveva ogni sua parola, senza fiatare, senza chiedere, tanto che don Saverio gli chiese se per caso avesse perso la lingua per la paura. Nun teng paura, sto sul pensànd, don Saverio, rispose serio e continuò a guardarsi intorno, cercando di abituare gli occhi a quell’ambiente. In ogni cavità scavata nella nuda roccia c’erano teschi di varia forma e grandezza. Alcuni erano inseriti in teche di vetro, protette da un sottile strato trasparente, altri erano scoperti, lucidi, puliti, raschiati, come se avessero subito una solerte e continua pulitura. E in effetti, gli confermò don Saverio, molti di quelle fredde ossa erano state adottate da donne che ne tenevano cura, come di una creatura viva, di un famigliare bisognoso di affetto. Molti di quei teschi, aggiustati con le due tibie intrecciate a formare una composizione che Gennarino aveva visto riprodotta su alcuni flaconi di medicinali, nell’infermeria dell’istituto, avevano vicino degli oggetti di metallo lucente. Sono degli ex voto, disse don Saverio, notando lo sguardo interrogativo di Gennarino. Da tempo immemorabile, i fedeli vengono a trovare questi morti abbandonati, ne scelgono uno e lo curano come se fosse un loro parente, un padre, una madre, un nonno, un fratello. Gli accendono lumini, lampade votive, gli portano fiori, e chiedono grazie. Poi, se ottengono ciò che hanno chiesto, ritornano e portano questi pegni d’amore. Un cuore, una gamba, l’intera figura, una testa, un braccio, a seconda dell’organo che era malato e che, secondo loro, è guarito, per intercessione della loro anima del purgatorio. Gennarino ascoltò in silenzio, poi il suo sguardo si illuminò d’improvviso, ebbe una reazione inaspettata, lasciò la mano di don Saverio e se la passò in testa, scompigliandosi i ricci e grattandosi la fronte, come faceva quando stava per fare una delle sue considerazioni filosofiche. Don Saverio, disse con voce ferma, cercando di intercettare, lo sguardo del prete, nella poca luce di uno dei cunicoli più stretti, davanti ad una teca che conteneva un cranio più grande e lucido di tutti, con i fori delle orbite che sembravano due gallerie. Don Saverio, ma allora quelle persone adottano na’ capa e’ mortò, come si adottano i bambini? Si, più o meno, rispose il prete, meravigliandosi della perspicacia di quel ragazzino. Allora sapete che c’è di nuovo, monsignor…o scusate, don Saverio,che pur’io voglio adottate na’ capa e’ mortò, vista che fino a mò nessuno ha voluto adottare a me. Il prete sentì un brivido lungo la schiena. Si commosse, ma non lo dette a vedere. Don Saverio, non esternava facilmente i suoi sentimenti, anche se sotto quell’apparente scorza di severità e scontrosità, batteva un cuore sensibile e generoso. E bravo Gennarino! Che bella pensata che hai avuto! Certo che puoi adottare la tua capa di morto, la tua anima del purgatorio, a cui puoi dedicare le tue attenzioni, le tue preghiere, chiedere di intercedere per te in Paradiso. Gli posso chiedere tutto? chiese il ragazzino, e un sorriso furbesco gli si era stampato sul viso. Tutto ciò che è lecito chiedere, rispose con voce ferma il prete. Va bene, allora ci sto. Ho deciso, faccio l’adozione. Don Saverio lo attrasse a sé, con un moto che non gli era congeniale, quasi lo abbracciò e Gennarino, che non chiedeva altro, si allacciò alla vita del prete, afferrò la sua tonaca, la stropicciò, tanto che don Saverio dovette staccarlo a forza. Ne, guagliòn, me bbuo’ stracciàr l’abito talare? Guarda che te lo faccio pagare. Sorrise benevolmente mentre gli dava uno scappellotto. Ora devi solo scegliere il tuo teschio, la tua anima, disse don Saverio. Ho già scelto, don Saverio, ho già trovato chi è l’anima che debbo adottare. E’ quel cranio che sta là! E indicò quel teschio dalla calotta cranica lucidissima e armoniosa, con le suture perfettamente integre, le orbite profonde, la fronte spaziosa, con le arcate sopracciliari appena pronunciate, mandibola e mascelle con denti conservati e bianchissimi. Mi piace questo! disse quasi facendo un salto e si trattasse di un giocattolo da scegliere. Si questo, con le altre due ossa incrociate a formare una croce. Sono due tibie, precisò don Saverio, due ossa della gamba, e si toccò la sua per far capire a Gennarino dove si trovavano. Adesso possiamo andare, disse don Saverio, adesso puoi venire ogni volta che vuoi a trovare il tuo amico. Ma Gennarino non si muoveva. Era pensoso, aveva le labbra serrate come a voler trattenere una domanda che aveva paura o vergogna di fare. E adesso che c’è, disse don Saverio. Mo’ ca’ te manca? Scusate don Saverio, ma quando si adotta qualcuno, fosse pure nu’ cane, non bisogna dargli un nome? Il prete non si scompose, ormai era abituato al fatto che quel bambino era una fonte inesauribile di sorprese. Eppure hai ragione, scegli tu il nome allora. Gennarino ebbe un’esitazione, si bloccò, proprio mentre stava per parlare. Ci pensò su un po’ e poi disse. Scusate, ma come faccio a scegliere un nome se non so se è maschio o femmina? Don Saverio, a quel punto, si pentì amaramente di aver fatto scendere il piccolo filosofo nelle catacombe, ma comunque azzardò una soluzione. Per convenzione stabilita tutte e’ capa e’ mortò sono maschi, quindi scegli un nome e non scocciare. Gennarino ci pensò su. Aggrottò la fronte, si grattò la testa, distorse il labbro emettendo un soffio d’aria per far smuovere il ricciolo che gli ricadeva sempre sulla fronte, e poi finalmente sentenziò. Lo chiamerò Arturo! E perché proprio Arturo? chiese il prete, entrato ormai nel vortice di quella rappresentazione che stava tra il sacro e il profano. Arturo è il mio migliore amico, ma principalmente perché Arturo è il nome di una stella, una delle più brillanti del firmamento, che si trova lontano, lontano, eppure brilla come se avesse acceso dentro la pancia milioni di fari. E tu come sai queste cose, chiese don Saverio sinceramente meravigliato di quella uscita astronomica di Gennarino. Me l’ha detto il mio amico, o’professòr Arturo appunto, l’istitutore. Va bene, disse don Saverio, chiamalo pure Arturo e mi raccomando trattalo bene. Non vi preoccupate don Saverio, ormai Arturo sta in mano a mè. Nei mesi seguenti e fino alla fine del corso di catechismo, ogni volta che Gennarino andava nella chiesa della Sanità, non mancava di far visita ad Arturo. Avvertiva don Saverio che scendeva nelle catacombe, che ormai per lui non avevano segreti e si fermava davanti alla teca di Arturo. Ogni volta gli portava un fiore o gli accendeva un lumino e si tratteneva a parlare con quel teschio, come se fosse una persona. In quei mesi, gli raccontò tutta la sua vita, gli confidò le sue pene, le sue angosce, e lo tempestò di domande come faceva con i vivi. I suoi perché non stancavano Arturo che anzi ascoltava pazientemente le domande di Gennarino, senza scomporsi, senza infastidirsi, o spazientirsi. Venne il giorno della prima comunione. Fu un giorno di festa, di suoni, di allegria. Dopo aver ricevuto per la prima volta l’ostia sacra, Gennarino si avvicinò a don Saverio e gli disse qualcosa all’orecchio, approfittando di un momento in cui non c’era nessuno più nei paraggi. Suor Carmela vide la scena e si rallegrò in cuor suo di quella intimità, della complicità sorta tra il vecchio sacerdote e Gennarino. Dopo un po’ il ragazzino scomparve dalla sagrestia, e dalla chiesa. I suoi compagni erano tutti radunati intorno a suor Carmela, ma di Gennarino si erano perdute le tracce. Don Saverio si ricordò della richiesta di Gennarino e si precipitò insieme all’istitutore nelle catacombe. I due attraversarono velocemente il percorso sotterraneo che portava alla teca del teschio adottato dal ragazzino e appena arrivati lanciarono, quasi contemporaneamente, un urlo disperato. Disteso sull’umido selciato della cripta c’era il bambino, i polsi sanguinanti, pezzi di vetro della teca sparsi intorno. Gli occhi erano aperti, aveva cercato di sollevarsi ma era ricaduto a faccia a terra, indebolito dalla perdita di sangue uscito dalla lesione alle vene dei polsi che si era procurato rompendo la teca di vetro che conteneva il teschio. Gennarì, urlò don Saverio, che hai combinato? Mentre il giovane istitutore si slanciava verso di lui, lo sollevava da terra, lo prendeva in braccio e con il fazzoletto stringeva i piccoli polsi per fermare l’emorragia. Che hai combinato figlio mio? ripeteva tra lo sconforto don Saverio. Il pallore dl volto del bambino era impressionante. Don Saverio, mi gira forte la testa, disse in un sussurro. Ma come hai fatto a farti così male? E perché? Don Saverio, io volevo solo abbracciare il mio amico, lo avevo adottato, vi ricordate? E allora che adozione era se non potevo abbracciarlo, dopo che gli avevo parlato per tanto tempo, lo avevo scocciato con tutte le mie domande, e lui mi aveva ascoltato con grande pazienza. Si bloccò per un colpo di tosse, voltò lo sguardo verso il giovane che intanto lo aveva sollevato in braccio e si avviava verso l’uscita. E allora ho rotto il vetro che lo separava da me e l’ho abbracciato. Com’era freddo, don Saverio, proprio come un morto! Figlio mio, figlio mio, continuava a ripetere Don Saverio, mentre ormai erano arrivati all’ingresso del presbiterio, dove suor Carmela, vedendo la scena, lanciò un urlo che fece rintronare tutto l’altare maggiore. Per poco non andavi a fare compagnia al tuo amico Arturo, incosciente! E mi mettevi pure nei guai. E io che mi ero fidato di te. Adesso don Saverio si era ripreso, aveva capito che poi la situazione non era così grave e poteva anche lasciarsi andare a qualche rimprovero. Ma che ti è saltato in testa, tu sei la mia disperazione, si lamentò suor Carmela mentre lo abbracciava, quasi facendolo cadere dalla braccia del giovane istitutore. All’ospedale, subito all’ospedale, senza perdere tempo! gridò suor Carmela, e intanto aveva fermato una macchina di passaggio mettendosi al centro della strada, con il rischio di essere investita. Io volevo solo abbracciare il mio adottato, il mio amico, suor Carmela. La suora che non conosceva i retroscena della faccenda, non capì e pensò che Gennarino stesse vaneggiando per la perdita di sangue. E poi… poi gli ho chiesto se per caso aveva visto, lui che sta in paradiso, perché Arturo, come la stella sta in cielo e quindi sta in paradiso, se per caso aveva visto mammà e papà miei. E lui mi ha risposto, lo sapete, mi ha risposto! A’capa e’ morto si è mossa, si è abboccat’ in avanti. E allora io l’ho abbracciato e mi sono sentito più leggero. Il sangue mi usciva, ed ero più leggero e così sarei potuto andare in cielo, e magari in paradiso e avrei visto i miei genitori. Ma poi siete venuti voi e il sogno è svanito. Zitto, sta zitto figlio mio, disse suor Carmela e lo cullava mentre lo teneva in braccio, come avrebbe fatto sua madre, mentre la macchina con il clacson strombazzante attraversava di corsa il rione Sanità, si precipitava verso l’Ospedale S. Gennaro.